Il Mediterraneo è un crogiuolo di civiltà includenti. Lo è stato nella disputa tra Oriente ed Occidente nell'Impero Romano

ROMA - Nel Mediterraneo della vita e della morte tra etnie e storia. 1. Occidente ed Oriente trovano una chiave di lettura sia storica che geo – politica intorno alle civiltà, nate e vissute, condivise, incluse e conflittuali, dei Mediterranei. Gli Oceani sono destini dentro i Mediterranei. Paesi e Nazioni, geografie e culture tout court si sono incontrate in una dimensione materiale e spirituale che è l’intreccio di un Mediterraneo acqua e terra. Le storie dell’Adriatico vivono dentro i Mediterranei. I popoli nelle migrazioni hanno attraversato le eredità della Grecia, prima della Mesopotamia, del mondo Arabo, di Roma.

In una geografia di civiltà intrecciate i modelli culturali di appartenenza svolgono un ruolo necessario nella definizione di quelle eredità storiche che interpretano memoria e radici di un popolo. Lo snodo di una tale lettura non ha soltanto una rilevanza religiosa (basata sulle fedi e sui riti), ma è espressione di una centralità etnica in uno sviluppo tra presenze minoritarie ed affermazioni politiche. I migranti tagliano confini e frontiere. Compiono un viaggio reale. Geografico. Compiono un taglio nella loro vita. Un’antropologia dell’esistere affidando tutto alla speranza. Noi viviamo il senso dell’accoglienza. Il senso è nell’essere stati migranti tra popoli e civiltà. Il viaggio ha le sue attraversate.  Le frontiere si attraversano e non sono come gli orizzonti e non sono come i confini.

C’è un Mediterraneo che è confine, eredità, accoglienza. Ma in questi tre aspetti serpeggiano le cadute delle civiltà. Tutto è comprensibile e giustificabili, ma la soluzione che potrebbe essere per i migranti di chiara rilevanza economica e sociale diventa immediatamente antropologica, culturale, geo-politica. Il Mediterraneo, tra Sponda Sud e Sponda Nord, è un destino che ha sempre attraversato le storie dei popoli migranti lungo le rotte dei popoli che sono civiltà.

Le frontiere separano. Ma bisogna sempre guardare ad un viaggio che include, ovvero ad  viaggio includente, ovvero bisogna comprendere il senso del viaggio prima per comprendere il proprio viaggio ulissico e poi per spezzare le finestre e dare voce alle partenze. Il viaggio è una costante partenza. I migranti conoscono la partenza e non entrano nel sentimento del ritorno.

Viaggio, dunque, come ricerca della propria interiorità. Viaggio migrante e viaggio emigrante.  Ma anche questo vive di frontiere. Jung ci avrebbe disegnato la mappa dell’essere per una conoscenza di se stessi. In questo viaggio interiore, che non è da intendersi quale camminamento spirituale, c’è l’impossibilità della rottura della frontiera che incontra l’orizzonte. Non si viaggia per conoscere. Il viaggio, nel tempo dei migranti, è una fuga dalle terre delle radici. La fuga è la diaspora tra coscienza del luogo e abbandono per un legame ad una speranza: economica, esistenziale, sociale.

Dobbiamo potere uscire dai nostri deserti soltanto superando il viaggio dei nostri labirinti (avrebbe detto Mircea Eliade, il grande teorico del rapporto tra viaggio e simbolo del labirinto), perché in questi labirinti che si raccolgono i destini di una appartenenza. Appartenenza che può essere linguistica, transitiva tra il sociale e il culturale, fisica come è il vivere nelle comunità di quartiere. 

Ma da questo labirinto bisogna che si esca. Ci vengono incontro ancora Eliade, Pound, Pavese, Eliot, Walkot, Joece e tutta quella letteratura di un Novecento, compresa quella dei viaggiatori come Piovene, Moravia, Alvaro che può fare a meno di Dante e della sua teologia. Oggi siamo oltre i viaggiatori. Siamo nella disperazione del viaggio. Già, il viaggio è strazio. Si parte per disperazione e per speranza.

La letteratura offre scavi tra la mente (Vittorino Andreoli) e la ragione (Pascal) in una onirica visione psicologica che è offerta non dalle parole ma dai linguaggi. La lingua non è il linguaggio. Maria Zambrano è la vera teorica del rapporto tra frontiera, viaggio ed esilio nel viaggio. Ci sono frontiere che convivono con il nostro esistere e che sono comunque nella realtà come linea di demarcazione tra le civiltà, tra i popoli, tra le Genti (direbbe San Paolo). 

I discorsi sono complessi, ma bisogna capirli. Difendere le frontiere? Certamente difendendole si difende una identità culturale e una appartenenza ad una lingua. Perché le lingue minacciate sono quelle spezzate dai conflitti politici. Ecco perché attraversandole bisogna amarle senza viverle come modelli ideologici. Le idolatrie provengono proprio dalle ideologie e dalle religioni. Bisogna superare le religioni e le filosofie delle ideologie per renderle, le frontiere, superabili, le frontiere si superano nel momento in cui si attraversano. 

Attraversarle significa, tra l’altro, penetrarle. Nell’anima, nel corpo, nella coscienza, nelle Ragioni di Stato. Ma al concetto di frontiera deve subentrare un ulteriore concetto che è quello della identità diffusa (non condivisa). Le frontiere appartengono a processi politici ed esistenziali. Le frontiere si attraversano ma non si dimenticano le civiltà. 

2. Il quadro che è andato profilandosi sia nei Balani che nella fascia nord africana pone delle sottolineature. Ma cosa è l’etnicità per una comunità di minoranza linguistica? È solo antropologia, è solo storia, è solo radicamento ad una eredità ad una tradizione, ad una identità? È lingua, linguaggio, vocabolario della parola? Certamente sì, e resta fondamentale questo elemento, perché senza un “vocabolario” la parola diventa sempre più un taglio dentro l’appartenenza. 

L’appartenenza è civiltà, è popolo, è attraversamento di frontiere. Gli Arberesh sono stati sempre una “frontiera” nella dimensione geografica e nella certezza storica tra due mondi che si attraggono: quello dei Balcani e quello Mediterraneo. 

Soprattutto in un contesto di geo – politica le etnie costituiscono una chiave di lettura per “catturare” l’anima di una civiltà. Gli Arberesh sono una civiltà dentro il contesto balcanico – mediterraneo e si portano dentro non solo gli archetipi di una griglia simbolica illirica ma anche profondamente radicata in una visione che è sostanzialmente antropologica ma che diventa (è diventata nel corso delle epoche) metafisica. 

Bisogna che la lingua penetri l’antropologia e resti non metafora di una storia ma ontologia dell’anima di un popolo. Il “vocabolario” è chiaramente costituito da sillabe, vocali, ritmi, accenti, ovvero di parole, ma questo “vocabolario” del linguaggio parlato e ascoltato ha la sintesi di un ulteriore processo linguistico che è quello di una semantica marcatamente spirituale. 

3. I popoli fanno sempre i conti con le loro identità, tanto che i gravi conflitti tra popoli del Novecento sono sorti sulla linea delle appartenenze e delle eredità geo – politiche. La questione slava e dei Balcani è una delle tante testimonianze, come lo è il problema che pone il Mediterraneo. 

La metafora più vera è quella di considerare una frontiera come un muro (lo ha detto Sartre) ma la frontiera è anche il richiamo di una nostalgia di ciò che abbiamo lasciato prima di attraversarla e da questo punto di vista Albert Camus è un maestro nell’avere indicato il concetto di “Meridiano” come posizione di attesa di una esistenza tra gli uomini, tra i popoli e tra le civiltà. 

Possono essere “provvisorie”. Lo sono. Ma non può esserci comprensibilità della frontiera senza un porto antropologico tra gli uomini e le tradizioni, perché attraversare frontiere vuol dire anche tentare di non perdere la memoria e la tradizione. La speranza dei migranti possono diventare illusioni. 

Il viaggio dei viaggiatori è ben altra cosa. I viaggiatori non fanno mai i conti con le frontiere. Il viaggio è una realtà e una metafora le frontiere sono esistenze dell’anima e conflitti tra civiltà. Il viaggio dei viaggiatori è sempre un ritorno. Il viaggio dei migranti è sempre una partenza che si intreccia nella speranza che si definisce nell’illusione di stanziarsi in una nuova terra, attraversando il mare.

Non bisogna, comunque, mai disperdere il valore delle appartenenze. Nelle appartenenze ogni valore diventa antropologia dell’esistere. I nuovi migranti dei Mediterranei diffusi vivranno l’inconsapevolezza delle lingue perdute e delle eredità tradite. 

Lasciando una Patria non si perde un’appartenenza. Si perde un’identità e con l’identità si tagliano le frontiere e si entra in “continenti” che sanno di altro e sono oltre.  I migranti tagliano confini e frontiere e chiedono alla speranza di farse voce di un nuovo destino. Il più delle volte diventa illusione. Il Mediterraneo raccoglie le voci e queste voci sono nel destino delle civiltà e dei popoli che verranno.

I Popoli cosiddetti “tagliati” (una volta si parlava di lingua tagliata, ma tanto tempo, ovvero quando c’era una volto una diversa attrazione …) sono quelli che rischiano di perdersi nella sconfitta di una lingua sia parlata che scritta. Si salvano se si affida alla lingua sia l’importanza di una semantica del sentire il senso di appartenenza sia nell’ascoltare il vocabolario che è trasmissione, ovvero comunicazione di linguaggi, che offrono sia un immaginario sia un legame tra le “scorie” di una “ideologia” dell’identità sia di un sentire vero di appartenere alla tradizione. 

Certo, questo nostro tempo vive la fragilità del tramandare la tradizione. Non si può “giocare” sulla antropologia di un rimando al folclore. O si è dentro una eredità che riesce a trasformarsi in una appartenenza vera non solo in termini di capacità di recepire la memoria o le memorie grazie ad una intelaiatura tra lingua e letteratura, contesto territoriale e modelli artistici, tra riti religiosi e recupero di tradizioni pur nella laicità o si corre il rischio di perdersi. 

È chiaro, comunque, che la lingua deve assumere l’importanza centrale accanto al rito che è quello chiaramente bizantino. Gli Arberesh si smarriscono dentro la religione meramente cattolici – latina.

Perdono le linee di una eredità. Sono bizantini, sono ortodossi, sono orientali dentro l’Occidente. 

Questo è un punto focale di una discussione che possa abbracciare i due riferimenti: lingua e antropologia. Ma lingua è quella Arbereshe e il rito non è quello latino. Bisogna capirsi altrimenti si diventa “meticciati” senza un riferimento identitario. 

È certo che dall’essere soltanto balani e adriatici dal punto di vista sia geografico che culturale oggi si è complessivamente mediterraneo. Perché il Mediterraneo non è soltanto un arco o un semi-cerchio di mare che lambisce coste e Paesi. 

4. Il Mediterraneo è un sentire ma è anche un accogliere popoli e civiltà tra mare e terra in una vasta realtà storica che va dalla Macedonia all’Albania, dalla Grecia alle sponde iberiche. Non è un appunto sul cerchio del globo. Si tratta piuttosto di una misura di culture inclusive. Il mondo Arberesh è un mondo inclusivo che tocca chiaramente la matrice ereditaria che è l’Albania (o i Balani in senso più ampio) ma è anche il Nord Africa, se si pensa alle comunità Arbershe della Sicilia. La Sicilia è Mediterraneo africano. La Puglia, con le sue comunità, è incontro con l’Albania e i Balani. 

Insomma questo Mediterraneo diffuso non è altro da sé della storia e della cultura adriatica. Ecco perché nella modernità del quadro geo – politico ciò che si difende è la lingua. Le antropologie si intrecciano e le tradizioni misurano il senso della storia e la mitologia nella leggenda. 

Solo la lingua porta dentro di sé una vera capacità di radicamento alle radici di un popolo, nonostante l’intreccio o la dilatazione “dialettica” con altre lingue. Occorre difende il principio di una koinè originaria. La lingua è quella del popolo – civiltà degli Arbereshe. Non è quella del popolo albanese. 

È chiaro che la partita della globalizzazione per gli arbereshe non si disputa intorno alle lingue moderne soltanto. Bisogna capire che ormai non si è solo eredi di una civiltà balzana. 

Bisogna prendere atto che il Mediterraneo è una civiltà molto più complessa dentro la quale il vocabolario e l’identità Arbereshe possono avere un ruolo di straordinaria rilevanza. È mondo lirico, albanese e arabo nell’intreccio di radicamenti e di eredità che includono. 

5. Il Mediterraneo è un crogiuolo di civiltà includenti. Lo è stato nella disputa tra Oriente ed Occidente nell’Impero Romano. Lo è stato dopo la caduta di Roma. Lo è stato nel Medioevo. Lo è stato nella temperie rinascimentale (in Italia si è posta la questione anche con Machiavelli). Lo è stato nelle fasi post illuministe e risorgimentali. Lo è stato nel primo conflitto mondiale. Lo è stato nel secondo conflitto mondiale con l’impresa anglo americana in Africa contrapposta a quella fascista italiana. Lo è stato nella guerra fredda. Lo è stato nel contesto della crisi petrolifera degli anni Settanta. Lo è tuttora, anche dopo la caduta di Gheddafi. 

Il Mediterraneo resta il centro che “spacca” sempre più le divisioni politiche ed etniche di civiltà nate non solo sulle sue sponde ma anche nei rapporti tra nord Europa e gli Oceani. Il punto del discutere è politico ed economico ma è sostanzialmente etnico – religioso. 

Dalla Libia all’Egitto si sono aperte delle falde di notevole strazio socio – culturale – economico certamente, ma sono ben radicate in una contestualizzazione religiosa ed etnica. 

In una tale visione le contraddizioni economiche e religiose sono la chiave di lettura di una etnicità moderna che non dimentica i processi storici che hanno definito la fascia del Mediterraneo stesso. I popoli si incontrano e si scontrano. I popoli si ritrovano e spariscono. Hanno voci e destini e il Mediterraneo non fa altro che raccontare, nelle Europe, il suo destino. Tra frontiere e confini le civiltà incontrandosi includono popoli ed eredità.

di Pierfranco Bruni

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